La malattia del commissario

La malattia del commissario, apparso nel 1994 presso Sellerio, era già stato una pubblicato a stampa in una versione poco difforme nel 1990, in occasione di un premio letterario per l'inedito organizzato dalla Cooperativa Italiana Librai,
senza però suscitare l'attenzione della critica. Soltanto a partire dall'edizione Sellerio questo pseudo-giallo o anti-giallo ha avuto recensioni ed è stato oggetto di interviste con l'autore. Primo e pressoché unico ad esprimersi sullo stile del libro, Aurelio Minonne parlò su «L'Unità» (18.4.1994) di «prosa ispida e altera, ma stimolante e nuova davvero».
     Georg Maag così ha riassunto in «Horizonte» (4, 1999) la trama del romanzo: «Il commissario Leandri, la cui metaforica malattia consiste nel non saper spiegare l'esistenza e la possibilità stessa del male nel mondo, deve indagare sull'omicidio ― o non è stato invece suicidio? ― della sua ex compagna di scuola Enza Gorla, e i suoi incontri con le persone sospettate finiscono per trasformarsi in uno sconcertante confronto con la propria generazione, in una "discesa agli inferi". Sono tutti vecchi compagni di scuola, e a suo tempo tutti si erano uniti alla protesta studentesca degli anni Sessanta. L'investigazione non porta Leandri a scoprire l'assassino, ma gli rivela dolorosamente che cosa è diventata la sua generazione dopo la fine del movimento studentesco».
     Analogamente, benché con maggiore attenzione alle condizioni sociali dell'Italia contemporanea, si è espresso Titus Heydenreich (in Carlo Levi. Il tempo e la durata [Testi del convegno su Carlo Levi, Roma 1996], Fahrenheit 451, Roma 2000, p. 139): «La malattia del commissario: forse un romanzo-inchiesta, ma le intenzioni dell'autore vanno ben oltre: l'azione deve leggersi come un esempio della vanitas vanitatum della battaglia di un solitario contro il male. Leandri, il commissario, prevede di non poter sciogliere l'enigma dell'ennesimo assassinio nella babelica capitale lombarda. La "malattia del commissario" consiste nel fatto che il protagonista non può e non vuole rassegnarsi alla predominanza del male che ha invaso la vita dell'intera nazione. Fa al caso nostro che le riflessioni più profonde, più accorate, di Leandri si snodino nel corso di un viaggio sulle ferrovie Nord (…) Come si vede, sarebbe ingiusto parlare di una vituperatio patriae. Si tratta bensì di un compianto, che richiama alla memoria i versi non meno sconsolati che Leopardi trova per l'Italia dopo le umiliazioni del Congresso di Vienna. Un confronto del monologo postmoderno di questo protagonista dei nostri anni Novanta che ha perso la fede nel progresso morale e civile del Paese con le meditazioni di Carlo Levi di cinquant'anni fa può renderci consapevoli dell'immutata autorità di questo grande della Resistenza e dell'immediato dopoguerra, in cui combaciavano interamente l'integrità personale, l'impegno civile e le qualità artistico-letterarie».
     In un'intervista a «La Notte» De Marchi aveva confessato che originariamente era sua intenzione scrivere un romanzo generazionale, ma che poi il problema del male e del senso dell'agire umano era passato decisamente in primo piano: «nell'ideare la storia ho provato il desiderio di scrivere un romanzo contro, più ancora che sulla mia generazione. Ma (…) procedendo nella stesura mi sono reso conto di quanto vago e ingannevole sia il concetto di generazione (…). Un poliziotto, come un medico e come anche uno scrittore, è un uomo d'ordine: cerca di trovare la causa di un fatto e di combatterla; la stessa cosa fa il medico che si adopera per guarire un paziente; e anche lo scrittore, nel suo piccolo, lotta contro il disordine della lingua (…). Purtroppo però il mondo reale sembra tollerare un tale ordine soltanto come eccezione: dal piccolo furto all'enormità della guerra, dal banale raffreddore all'epidemia, dal balbettio infantile alla confusa Babele delle voci umane, infatti, la comoda e rassicurante normalità è continuamente compromessa dalla presenza del male. Chi si accorge di questo, si ammala della stessa malattia del commissario Leandri».
     Il male o, se si preferisce, il disordine, sembrerebbero quindi occupare sempre più chiaramente il centro delle tematiche e degli interessi dell'autore. In questo senso, che tra gli esempi citati nell'intervista compaia il medico potrebbe leggersi come un preannuncio del successivo romanzo Una crociera. Nella semplicità e linearità della sua struttura, fatta di incontri tra il protagonista e volta a volta un diverso personaggio, La malattia del commissario offre al
lettore una grande varietà di caratteri, situazioni, piani linguistici e stilistici, che si innestano tutti sull'ininterrotto e quasi ossessivo discorso indiretto libero del commissario. Anche là dove la crudezza della situazione e del linguaggio farebbe pensare a un intento realistico o addirittura veristico dell'autore, la presenza dell'occhio ansioso del protagonista dimostra una volta di più, se ce ne fosse bisogno, che tutta la narrazione di De Marchi subisce il filtro, insieme deformante e letterariamente vitale, di un soggetto. E attraverso quel filtro ci vengono incontro le zone d'ombra della società
degli anni più recenti: l'estremismo politico e l'utopia, la droga, il sesso, il cinico arrivismo sociale, il riflusso ideologico e l'impotenza del rancore.
     C'è, tra i tanti personaggi di questo romanzo, la figura dello sventato architetto Leone Prizzi, arricchitosi progettando orribili costruzioni per i nuovi ricchi brianzoli e dotato, nel testo, di uno scilinguagnolo molto disinvolto a proposito del quale l'autore stesso ha affermato che con esso è «riuscito per la prima volta a scrivere un discorso diretto scorrevole, curiosa mistione di lingua culta e di parlato. Leone Prizzi è servito di modello per Carlo Marozzi»: il protagonista de Il talento.

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