La malattia del commissario - testo 1

Il commissario negò al resto il suo sguardo e spiegò il giornale tra le braccia. Un lembo di esso fremeva sotto l'aria del finestrino attorando la sua debole attenzione… Era tutto così, come quel territorio affollato dal disordine dove la bellezza era l'eccezione e la meraviglia. L'Italia era questo; eppure non era ancora abbastanza, forse, per soffrirne. Non era nemmeno il peggiore dei disordini, ma soltanto il più vistoso; poi c'era l'altro, il disordine in cui era costretto a brancolare lui quotidianamente per trovare una traccia, il barlume d'un senso: il disordine degli atti umani, o forse il loro corso naturale una volta venuto meno il vincolo delle regole.
     Fu a questo punto delle sue brusche e lacunose riflessioni che lesse il titolo a piena pagina del giornale, l'annuncio di un nuovo scandalo, e spingendo l'occhio per le strette righe incolonnate intuì questioni di appalti, un imprenditore o ingannato o semplicemente insoddisfatto vuotava il sacco, distribuiva dischetti che sciorinavano su schermi tremolanti di computer liste di ministri e provevditori alle opere pubbliche, di faccendieri e intriganti, e sempre più giù, di infimi e minimi, da non pensare che tanti ne potessero esistere - ciascuno col suo prezzo affianco. E i giornalisti, nella loro inventiva fervida e compiaciuta, avevano già escogitato per l'episodio il nome in fondo accattivante di scandalo delle carceri d'oro. Ma lui, leggendo, stentava perfino a cogliere l'acutezza della frode.
     Gli infastidì gli occhi un guizzo di ombre grigliate, tralicci giganteschi che portavano lontano, adagiati sulle spalle, i grossi cavi dell'alta tensione.
     La spensierata Italia, ecco che cos'era, una tana di profittatori, il paese di cuccagna dei disonesti. Ogni tanto, è vero, a qualcuno veniva guastata la festa: ma in definitiva nulla cambiava. E questo doveva bastare per soffrirne; bastava a lui, in ogni modo, per quanto astratta fosse quell'entità a cui si sentiva legato irragionevolmente - l'Italia, un nome, un luogo labilmente definito da un contorno geografico e da una lingua più o meno comune.
     Dovunque mettesse le mani, dovunque guardasse, nient'altro che immondizia: del delitto, in tutta la sua varietà di escogitazioni ed esecuzioni, ma sempre (ed era questo, in fondo, il disgustoso della sua natura) cercato con prontezza e facilità, senza il palpito di uno scrupolo; e se non era questa, metaforica, era allora l'immondizia materiale, ammonticchiata lì lungo la massicciata, a ridosso di un orto… La sua mente, ecco, non sapeva andar dietro ad altro; non si apriva più che a questa fissità di pensieri; la visione della realtà, certo, offriva troppo poco di diverso. Eppure, che cosa verrebbe a incepparsi nel delicato ingranaggio del mondo se gli uomini vivessero, non si dice solleciti del bene altrui, ma tranquilli e indifferenti, ciascuno compreso del proprio tornaconto? Un ordine meschino, senza sospetto di utopia. Lontano da qualsiasi perfezione: e dunque possibile, perché no? Ma crederlo davvero gli costava uno sforzo innaturale: gli sembrava - quando non più tardi dell'altroieri aveva ostentato con Maffi la sufficienza del disilluso - di ricaderci lui adesso, nell'ottimismo inguaribile, e tracannarlo fino alla feccia… La verità era che non riusciva, ancora né mai, a guardare in faccia il concreto, una volta per tutte, come era. Doveva esserglisi appiattato dentro fin dall'adolescenza senza più abbandonarlo, quell'avanzo di fiducia nell'adeguatezza del mondo, l'idea che alla fin fine tutto fosse, se non proprio un gioco, uno spettacolo di cui aspettare lo scioglimento, la felicità immancabile. Sapeva, da sempre probabilmente, che non era così: eppure questa cognizione continuava ad avere per lui un che di irreale, di non interamente credibile.
     Un istante il sole piombò dietro un folto d'alberi, noccioli, scoscesi giù in una forra, sotto il ponte che sorresse la corsa fragorosa dei vagoni.
     Inutile era, quella fatica, quell'angoscia che si sentiva addosso di continuo, tanto che alle volte pensava di avere la febbre, o lo desiderava, per potersi ficcare in letto e restarci qualche giorno, stordito, macerato dal sudore. Poco importava. Di lì a trent'anni, o anche meno, la frode delle carcero non avrebbe interessato più nessuno; e della sua stessa persona, di lui ora così vivo nella sua sofferenza mentale, non sarebbe rimasta neanche un'immagine affondata in una memoria. Che tutto si cancellasse con tale impassibile assolutezza costituiva per lui, se non proprio un conforto, quantomeno un aiuto nello svolgere la superflua mansione che si era scelta; e insieme gli era di sollievo pensare annullati gli aguzzini, rimorte le vittime, adagiato finalmente lui, l'inseguitore sempre trafelato…
     Ma cadendo ormai fuori da questo legarsi e spezzarsi di pensieri, guardando oltre il finestrino una strada sfilare accanto al treno, ebbe ancora il tempo d'indovinare la villa cercata, che già la corsa si esauriva nel porto tranquillo di una piccola stazione.


(La malattia del commissario, Sellerio, Palermo 1994, pp. 100-103. © Cesare De Marchi)

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