La furia del mondo -testo 2

Quel giorno ci fu ancora scuola, ma nei successivi, per la mietitura ormai in pieno corso, andarono tutti nei campi e il maestro fece lezione solo ai più piccoli. Abel chiese a suo padre di far lavorare anche lui, aveva vergogna di rimanere a casa, unico maschio; e per la prima volta fu con gli altri nei campi. Entrò nella segale con loro, i culmi fitti attorno alle braccia, al petto, per tutta la sua statura, le spighe incurvate gli pungevano la faccia, cercavano le ciglia, e lui stringeva le palpebre come se avesse avuto il sole negli occhi, e più avanti nel sole emergevano le teste degli altri e le lame delle grandi falci, che portavano appoggiate alle clavicole. A un tratto vide rivoltare le falci, le teste chinarsi, il croscio delle piante recise, l'odore crudo che se ne spargeva. Si avvicinò con cautela a guardare, da dietro, e intanto incominciò a raccogliere le spighe da legare in covoni, come suo padre gli aveva detto di fare. Uli, due passi avanti a lui, la schiena già lucida di sudore, compiva mezze torsioni del busto, ritmiche, misurate, come senza sforzo, e il vuoto gli si allargava intorno; più in là la testa rossa di Johannes, dall'altra parte quella di Christoph, più in là ancora quella quasi nuda del padre. Pian piano il frangere delle falci si allontanava, seguìto dal fruscio dei fusti trascinati nel mezzo giro che li gettava a terra. Sentì crescere il caldo con il sole, diradate le spighe, accalcate ai suoi piedi, come schiacchiate alla rinfusa, eppure rivelavano la corsa in semicerchio della falce, le reste verso l'orlo più largo, tutte intricate tra loro, le evitava per non pungersi frugando gli steli che sollevava e stringeva a sé, un fascio sempre più grosso, quando voleva legarlo gli si sfaceva tra le braccia. «Falli più piccoli, i covoni!» La voce di suo padre, dov'era?, finché un barbaglio gli scoprì il ferro curvo della falce, su, copricapo feroce al disopra della faccia sfinita. «Vieni, t'aiuto io», e gli tolse dal petto l'ingombro di steli, ne lasciò cadere una parte, un rapido gesto del suo braccio lo annodò. «Hai capito, Abel? così», e lui fece sì con la testa, si rimise a raccogliere, poi rialzando il busto non lo vide più. Continuò; il sole soffocava l'aria, allentava il movimento del tempo; dietro le spalle lui si lasciava i piccoli covoni che aveva legati e avanzava sulla radura aperta dai falciatori. Questi gli vennero incontro di colpo, rossi in faccia, a passo pesante, non capì subito che andavano verso casa, una mano indicò il sole a perpendicolo, l'ora di mangiare, si accodò agli uomini, anche Uli era un uomo, alto già quanto il padre, mentre lui a nessuno arrivava oltre la spalla. Non parlavano tra loro, camminavano di fretta, dovevano aver fame, perfino lui ci pensava e deglutiva e sforzava il passo per non restare indietro. La faccia di suo padre gli si volse due volte.


(Da La furia del mondo, Feltrinelli, Milano 2006, p. 205-206; © Cesare De Marchi)

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