Il bacio della maestra - testo 3

«La musica», mi ripeteva la Nene con l'immutata gentilezza della sua voce, «è il più bel dono che Dio ha fatto agli uomini.» Avrei voluto crederlo ancora, ma non ne ero capace: qualcosa in me si opponeva, e io, nonostante lo sforzo del mio desiderio contrario, mi scoprivo a pensare che la musica, come la poesia, l'ha fatta l'inventiva umana, e che Dio stesso nei cieli deve riceverne diletto.
     Non erano passati che quattro anni da quando la Nene mi aveva persuaso ad amare la musica, raccogliendo sull'universo dei suoni la mia mente distratta e insegnandole a cogliere il nesso astratto delle melodie: ma già la mia fede in lei aveva incominciato a perdere l'impetuosa naturalezza di allora, per farsi riflessiva, condizionata, severa. Ora che per la testa mi frullavano i primi bizzarri motivi di Prokofiev, sospettavo di sentimentalismo qualsiasi armonia facile e prevedibile: così, istintivo com'ero, senza nessuna seria educazione musicale, mi rivelavo schizzinoso e incapace di compromesso non meno con la Nene che coi miei coetanei e le ragazze al juke-box: la mia stessa timidezza diventava il rifugio di una caparbia presunzione. Mi sorvegliavo: una musica che lusingasse il mio orecchio e mi spingesse all'abbandono mi metteva in sospetto; la dissonanza invece legava il disordine dei miei sentimenti per dare voce alla mia insoddisfazione e alla mia nascente sofferenza mentale. Da questo deciso rifiuto, che cercavo con disagio ma senza successo di nascondere, salvavo a stento il cupo, gelido flusso sonoro di Sibelius, forse solo perché avevo ancora troppo vive nel ricordo l'emozione con cui, bambino, avevo guardato la lapide apposta sulla casa del lungomare dove il musicista aveva composto la seconda sinfonia, e la riconoscenza provata per la Nene, che me l'aveva mostrata rimanendo paziente ad aspettare che io col lento stupore delle mie labbra l'avessi sillabata per intero.
     Quasi la stessa cosa era successa con la poesia. Per prima la Nene aveva sedato la mia infantile turbolenza invitandomi a sedere accanto a lei su un divano e cominciando a sfogliare sotto i miei occhi le pagine grandi e mezzo scucite di una Divina Commedia illustrata dal Doré. Mi aveva spiegato con cura le figure, aggiungendovi di tanto in tanto la lettura delle terzine più semplici: ma all'episodio di Paolo e Francesca aveva sollevata la faccia dal libro e allargate le mani per recitare i versi con la voce d'un tratto intensa e sospesa, che abbagliava stranamente la fantasia: Quali colombe dal disìo chiamate... Su quelle impressioni forti, ma ormai lontane, si erano depositate nuove letture scolastiche, e la potenza di Farinata e di Ulisse, il delirio di Ugolino gettavano una luce sanguigna sulla storia dei due amanti: sicché, ripensandoci adesso, non faticavo a convincermi che la Nene l'avesse tutta edulcorata, svilita di svenevolezza. Ed ero ansioso di conoscere il Purgatorio e, ancor più, il Paradiso, la cantica che ella aveva dichiarata troppo astrusa per lei, ma il cui contenuto, che io immaginavo freddamente astratto, mi attirava quasi come una sfida al mio intelletto, sebbene nella mia inerzia io non osassi affrontarlo da solo e stupidamente aspettassi di leggerlo a scuola.
     Mangiai in silenzio, rasserenato così dalla presenza di lei come dalla calma e dalla penombra che erano nella stanza: ma questo principio di gioia era segnato dal rimorso, e malinconicamente si faceva strada in me il presagio che la Nene sarebbe morta molto prima di morire.


(Il bacio della maestra, Sellerio, Palermo 1992, p. 110-112; © Cesare De Marchi)

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