Una crociera - testo 3

     «Si era distratto», fece Chiara, che lo stava osservando.
     «Scusi: è che lei non parlava, e la mia testa se n'è andata un momento a spasso... Le è piaciuta la mia storia d'amore?»
     «Moltissimo. Ma triste anche questa.»
     «Ma no, perché? A questo mondo ci sono tante felicità possibili, non solo l'amore e il matrimonio.»
     «Sì, è vero. Del resto non lo sono.»
     «Come dice?»
     «Mi racconti ancora. Ha messo su casa e cominciato a insegnare.»
     «Esatto, ma non corra troppo. C'è stata di mezzo la guerra, e mi ci hanno spedito difilato. Io, signora, ho calcato le sabbie africane col mio esiguo peso, un po' accresciuto ― è vero ― dall'elmo e dal moschetto, nonché dallo zaino con le cianfrusaglie più indispensabili a quella strana occupazione, ma insomma!, ho marciato sul Sudan sotto il comando del Duca d'Aosta. Dicono che fosse un ottimo stratega, solo che i nostri strumenti di distruzione non reggevano il confronto con quelli nemici, e poi con soldati come me, se l'immagina?, vincere non era mica uno scherzo!»
     «Lei soldato! Non ce la vedo proprio, sa? E ha combattuto, sparato?»
     «Be', si capisce: ridotto ai minimi termini, il lavoro consisteva appunto in questo. Naturalmente all'ordine di sparare bisognava ubbidire: che poi la palla arrivasse a destinazione era un'altra faccenda, e del resto nessuno poteva andare a controllare.»
     «Insomma lei sparava in aria.»
     «Sì, se mi è consentito. Ma non creda, erano in tanti a farlo. E non ero un vile, sa? Io facevo il mio dovere come gli
altri: la patria mi chiedeva di rischiare la vita, e io la rischiavo; mi chiedeva di avanzare, e io avanzavo; e se lo vuol sapere, ero talmente intontito che non sentivo neanche paura. Ma nessuno può costringermi a uccidere, e io non ho ucciso.»
     «E se si fosse trovato davanti uno che invece sparava davvero e mirava a lei? non si sarebbe difeso? La sua vita valeva bene quella di un altro.»
     «Sì, nel caso estremo forse avrei ucciso, ammesso che fossi abile abbastanza. Ma dall'idea che ho potuto farmi della
guerra, casi di questo genere non si verificano praticamente mai. Non si guarda in faccia chi si uccide: si tira a un automezzo, a una macchia di colore, si gira una manovella per alzare un cannone e si fa partire un colpo che solleva
una nuvola di fumo in lontananza. Crede che se non fosse così, riuscirebbero a vincere in tanti milioni di persone il disgusto, lo schifo istintivo per l'omicidio? La guerra è un tranello, signora: uccidere prima di essere uccisi, s'immagini un po' che bel ragionamento! Ma se gli uomini dietro quelle dune, quegli uomini che non vedo e non odio, se anche loro avessero tanto poca voglia di uccidere quanta ne ho io? Non sarò certo io a fargliela venire. Solo che quando intorno scoppiano le bombe e si sentono urlare i primi feriti, il mondo si rovescia: d'un tratto chi ha meno coraggio è quello che ne ha di più, e non cadere nel tranello diventa quasi impossibile. Non dico di no, ci sarei caduto sicuramente anch'io, ma per fortuna la mia guerra è durata solo quattro mesi: poi la notizia della nostra resa mi ha aperto le porte di un campo di prigionia inglese.»
     Dalla tasca dei calzoni Pancaldi estrasse un fazzoletto accuratamente ripiegato e lo premette sulla fronte, all'attaccatura dei capelli, dove affiorava più sudore.
     «Solo a guerra finita, ben seccato e arrostito dal sole africano, ho rivisto un'aula scolastica: ma in compenso per trentasei anni consecutivi, se l'immagina? Una prigionia meno dura ma molto più lunga e noiosa di quella inglese… Non vorrei deluderla proprio ora, signora, però è stata lei a proibirmi di annacquare la mia storia con qualche innocua bugia. Non rida, sono perfettamente serio. Vede, che cosa sarebbe stata la mia vita senza l'insegnamento non lo so, ma certo l'insegnamento non è mai stato la mia vita: un lavoro, questo sì, che ho fatto con impegno e soprattutto con pazienza, e di
cui mi sono sempre vergognato un po', non solo per lo stipendio poco edificante, ma per il disagio di celebrare il rito quotidiano delle spiegazioni, che i miei uditori non erano entusiasti di udire e io meno ancora di recitare; e siccome ho sempre pensato che l'istruzione sia una forma di rispetto verso quelli che vengono istruiti, non mi pareva una grande idea
obbligarli a interessarsi di qualcosa anche se non volevano saperne: mi aveva tutta l'aria di un sopruso. Così non le nascondo che mi ha fatto molto piacere quando i ragazzi si sono ribellati (nel '68, sa?); peccato che ne abbia fatto
le spese anch'io! Cose che succedono: a tanti anni di distanza, e dall'alto della mia pensione, non me ne importa proprio più niente, ho ragione?»
     Chiara restò un momento senza rispondere. Poi disse:
     «Lo sa che io ero dall'altra parte della barricata?»
     «Lei una contestatrice? ma non era un po' troppo piccola?»
     «Ero nella classe di maturità.»
     Pancaldi la guardò con una certa sorpresa. «Sarebbe potuta essere mia studentessa. È molto strano.»
     «Se avessi avuto professori come lei non li avrei contestati.»
     «Ah sì? Sarebbe stata l'unica volta che avrei fatto cambiare idea a una testa diversa dalla mia, sa!» Adesso un'ironia divertita gli giocava sulle labbra.
     «Perché si denigra così? è di nuovo la sua falsa modestia? Non è bello per chi la sta a sentire, scusi la franchezza.»
     «Fa bene a sgridarmi. Ho già imparato a correggere le mie maniere col dottor Brancucci, ora vedrò di comportarmi meglio anche con lei. E per prima cosa mi sforzerò di avere un concetto un po' più elevato di me stesso, va bene?»
     Scherzava con l'aria di esser serio, o più facilmente diceva sul serio fingendo di scherzare; e intanto la sua faccia lustrava, sudata, in pieno sole, con le palpebre strizzate in una fessura.


(Una Crociera, Feltrinelli, Milano 2000, pp. 145-147; © Cesare De Marchi)

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