Nove storie storiche - testo

...la giustizia sociale non era cancellata né dimenticata, ma indubbiamente nella società del benessere passava in secondo piano rispetto al problema dell'efficienza amministrativa, che era il vero problema di uno stato moderno e il solo criterio su cui si misuravano le capacità di un partito. Loro, lui, i politici, erano i tecnici di questa efficienza: dei professionisti, che come tali andavano riconosciuti e remunerati. Certo da questo concetto altisonante alla sua preoccupazione personale - che la giunta comunale potesse cambiare e lui perdere il trattamento di assessore e le provvidenziali percentuali sulle percentuali per tornare al suo stipendiuccio di funzionario di partito - non era un salto da poco; ma era ben peggio volere, come insinuava il sorriso provocante di Paganini, ridurre lui e i suoi compagni di partito a volgari taglieggiatori: in realtà era soltanto il populismo becero e aggressivo dell'antipolitica che li costringeva a fare nell'ombra ciò che avrebbero avuto tutte le ragioni di fare alla luce del sole.
     E adesso era nel suo ufficio, seduto alla sua scrivania: davanti alla quale erano già passati due imprenditori, che con pochi convenevoli e rapida intesa gli avevano consegnato le loro contribuzioni, l'avevano salutato ed erano usciti. Aspettava il terzo, l'ultimo di quel giorno, Paganini. L'agitazione riprese possesso di lui, e particolarmente del dito indice della sua mano sinistra, che non smetteva di grattare il ruvido rivestimento di poliuretano della scrivania: rumorosamente, e senza il minimo concorso della sua volontà.
     Squillò il telefono: Paganini era arrivato, stava fuori della porta. Lui però non poteva riceverlo in quello stato; e poi, era comunque meglio fargli fare un po' di anticamera, tanto da dargli anche il tempo di schiarirsi le idee, casomai meditasse qualche colpo di testa. Intanto si alzò in piedi, mise le mani in tasca e le strinse a pugno per far finire il nervosismo del dito: funzionò; le tolse di tasca calme, si aggiustò il nodo della cravatta, allentato avrebbe sminuito il contegno che si preparò ad assumere, di nuovo seduto, busto eretto, mani intrecciate sulla scrivania, ben ferme.
     Paganini entrò, sembrava un po' intimidito, tanto meglio. Lui gli accennò che si sedesse, e quello gli si sedette di fronte.
     "Ha portato?"
     "Sì. Permette?" Sollevò la borsa da terra e la posò sul bordo della scrivania per aprirla: tirò fuori un panetto avvolto in carta da pacchi, non come le altre volte nel giornale, dove del resto avrebbe formato un bozzo più evidente ancora di ciò che doveva nascondere. Lui lo ricevette tra le mani, scostò un lembo, ma cosa aveva combinato? settecento banconote da diecimila!, ma perché non settanta da centomila?
     "Se per lei l'ingombro è un problema, la prossima volta posso farle un bonifico bancario."
     Di nuovo quel tono, di nuovo provocava, e ora che cosa faceva, se ne andava così? Se non voleva dargli la mano da uomo a uomo, almeno una parola di saluto poteva dirla.
     Sulla soglia della porta spalancata c'era qualcuno, e Paganini per non finirgli tra le braccia si tirò da parte, con la schiena allo stipite. L'altro entrò risoluto e venne verso di lui, che di riflesso cercò d'infilare il pacchetto mezzo aperto nella giacca.
     "No, ingegnere, questi soldi sono nostri."
     Lasciò che quello glieli togliesse di mano - nella tasca, tra per le dimensioni del mazzo e per l'orgasmo della fretta, non ci erano entrati. Dietro quest'uomo in borghese ne erano apparsi tre, quattro altri in divisa: non della finanza, erano carabinieri.
     Ebbe ancora la presenza di spirito di chiedere il mandato di perquisizione. Era invece un mandato d'arresto firmato da un nome sconosciuto, Di Meco, mai sentito, sarà il solito procuratore salito dal meridione, uno che per un avanzamento di carriera avrebbe dato la caccia anche ai ladri di polli… Turbato com'era, non gli passò per la testa che il ladro di polli, nella fattispecie, era lui. Ma fece ancora valere il suo diritto di andare al bagno prima di essere condotto via: e lì, sollevato il coperchio sulla porcellana immacolata del cesso, buttò dentro in rapida successione i due mazzi di banconote (queste per fortuna di grosso taglio) delle riscossioni precedenti, di cui si era prudentemente riempito le tasche interne e una esterna della giacca - adesso ne riempì il WC, perché erano pur sempre trentasette milioni che il gorgo dello sciacquone girò e rigirò per il collo dello scarico senza riuscire a risucchiarli, mentre l'acqua intanto saliva e saliva lungo i fianchi verso l'orlo della coppa, finché trabordò accarezzandogli le scarpe e allargandosi sul pavimento e scivolando sotto la porta chiusa, oltre la quale la voce di un carabiniere lo ammonì, paziente e didascalica: "Venga fuori ingegnere, da bravo, non vorrà mica annegarsi?"
     Uscendo si rese appena conto che le sue suole sciaguattavano e stampavano orme dappertutto; non si accorse affatto, invece, del momento in cui gli misero le manette; e scendendo le scale si perse a pensare che, avendo fatto tutto quello che gli aveva raccomandato il segretario, il segretario adesso aveva il dovere morale di aiutarlo… parlare al Di Meco, magari era vicino al partito o perfino uno dei loro… ma in ogni caso avrebbe, il segretario, non voleva dubitarne nemmeno un istante, avrebbe fatto valere tutto il suo peso politico, il suo potere, e di potere ne aveva, per tirarlo fuori da quella situazione incredibile, da quell'incubo…


(Nove storie storiche, Il Saggiatore, Milano 2013, pp. 163-167 © Cesare De Marchi) 

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