Il talento - testo 3

Al «Vecchia Borgogna» la cucina era fatalmente francese. Dico fatalmente a ragion veduta, perché ne derivò una svolta della mia vita che con ogni probabilità mi sarebbe stata risparmiata se il teatro della cena fosse stato un altro. Di per sé fu molto gradevole farmi stuzzicare il palato da gusti per me nuovi, benché, col matrimonio e col vitto regolare che gli aveva tenuto dietro, la fame si fosse decorosamente ritirata dal proscenio delle mie vicende spirituali. Solo che Michele per il mio sbalordimento ordinò un piatto di lumache.
     «Lumache?»
     Lumache, avevo capito bene: chiocciole, i miti molluschi che si portano senza fretta il guscio sul dorso lasciando sui luoghi del loro transito una scia di bava biancastra, che fin dall'infanzia aveva suscitato il mio disgusto al solo vederla, nonché toccarla o peggio. Il mio non schizzinoso amico trovò così divertente il mio sconcerto che si mise ad attizzarlo deliziandomi di dettagli che io sul momento preferii credere inventati:
     «Non ci credo!»
     Per tutta risposta lui schioccò le labbra e sventolò con sufficienza la mano inanellata dalla grossa pietra verde scuro.
     «Mo vedrai.»
     «Ma devono essere gommose e tutte viscide!»
     «Sono bocconcini più teneri di uno spezzatino di vitello», ribatté serio.
     Sospettai una presa in giro.
     Non dovevo immaginare, rispose, che i corpi degli animaletti brutalmente strappati dal loro guscio passassero tali quali nelle fauci del mangiatore: come del resto nessuno si sognerebbe di cibarsi di un brandello sanguinolento di bue o di maiale. La civiltà culinaria si misura infatti dalla lunghezza, complessità e inventiva del trattamento cui viene sottoposto il cadavere prima di diventare vivanda.
     Questo esordio saccente, sottolineato dalla solita trafila di corrugamenti e aggrottamenti, pur provocando in me un'istintiva reazione di fastidio, catturò la mia attenzione.
     Lavati e rilavati, spurgati a lungo nell'acqua, portati al bollore e scolati, i molluschi vengono finalmente trafitti con un grosso ago ed estratti dalla conchiglia: troncata la bruttura nera delle loro budella, tornano ad essere lavati per poi bollire ancora, questa volta ben quattro ore, in acqua e vino bianco con un gran panneggio di carote, cipolle e scalogni ridotti in pezzettini e di un mazzetto di timo, alloro, prezzemolo, sedano e porro. Quindi le piccole salme, tutte impregnate di questi sapori crudi come l'aria carica di aromi che si respira in un orto, restano su uno straccio di cucina ad asciugare prima di far ritorno nei loro vecchi gusci ripuliti e lustrati, dentro ognuno dei quali è già disceso, in punta di coltello, un ricciolo d'un burro tempestato da fini minuzzoli di prezzemolo e d'aglio e da uno spolverio di pepe. Questo stesso e altro burro accompagna brevemente le lumache nel forno, dove si scioglie in un delicato guazzo chiaro dal quale riemergono i dossi levigati, dalle curiose vene gialloscure, delle conchiglie.
     Non che questa descrizione me ne avesse messo propriamente appetito, ma dopo di essa sentivo tuttavia di non esser più tanto mal disposto verso quel cibo insospettato; e quando la portata arrivò sul tavolo, ero quasi impaziente di vedere Michele all'opera. Dentro il piatto rotondo grosse conchiglie rivoltate, traboccanti di burro fuso, stavano in bella disposizione simmetrica, dovuta ― come scopersi dopo che l'ingordigia del mio commensale ebbe prosciugato gran parte della salsa biancastra ― a una serie di fossette appositamente incavate nel fondo del piatto. Purtroppo nel curvarmi incuriosito in avanti sentii salire alle mie narici lombarde un puzzo d'aglio così penetrante che guizzai indietro sulla sedia, da dove osservai più compostamente il resto della scena.
     Con un gesto disinvolto della sinistra Michele afferrò una leggiadra pinzetta, che mi ricordò lo strumento con cui mia sorella Marta qualche volta si arricciava le ciglia, e ne azionò i bracci terminanti in due palette concave, nelle quali serrò con esatta presa il primo guscio; nell'imboccatura di questo la sua mano destra introdusse una minuscola forchettina a due punte inseguendo l'animaletto giù per la spirale della sua tana, dove riuscì a infilzarlo. Lo trasferì grondante dentro la propria bocca.
     Il pasto mi parve immane.
     «Vuoi provare?» mi propose in tutta serietà; e con la bocca ancora piena, gorgogliando e spruzzando saliva mista a gocciole di burro, aggiunse: «Sono squisite... non sai cosa ti perdi... 'a fine 'o munno...»
     Nell'esaltazione degustatoria si portò la pinza alle labbra mettendosi a succhiare l'ultimo contenuto del guscio, come durante la nostra prima cena aveva fatto con le cozze. Poi, a conclusione della raccapricciante operazione, si mostrò sorpreso da un'idea; e mentre calzava la mano nel tovagliolo come dentro un guanto e se ne strofinava con cura i baffetti imburrati, disse pensierosamente:
     «Ma lo sai tu quanto costa questa schifezza?»
     Come schifezza, se aveva mangiato con ributtante voracità?
     «Bah, non trovi anche tu che la materia prima di questa prelibatezza è schifosa? Roba che striscia e sbava nella terra, specie di grossi vermi flaccidi...»
     Non potevo, evidentemente, che dargli ragione: ma capivo ancora meno. Lui intanto, senza curarsi che lo seguissi, andava dietro alla sua invenzione precipitando, com'ero abituato a constatare in questi casi, verso uno stato di generale eccitazione muscolare: vidi i suoi occhi sgranarsi, spesse pieghe di pelle accalcarglisi su per la fronte, e le guance, fino a un attimo prima gonfie e tremolanti di cibo, forarsi di scaltrezza; perfino il pomo d'Adamo gli ballava su e giù per il collo:
     «Questa schifezza, caro mio, quando ti arriva così leccata e infiocchettata sulla tavola, vale tant'oro quanto pesa!»
     I dieci orti vennero comperati per una cifra che sarebbe stata più adeguata a un terreno da costruzione, ma io ero tanto stanco di fare obiezioni quanto Michele di cercare terreni. Passammo diverse domeniche ad abbattere baracche e reti di protezione, a ripulire e dissodare, a piantare e inchiodare le assi del recinto, che drizzammo su tre lati soltanto, dal momento che sul versante della strada il nostro allevamento restava ben delimitato dalla ripida scarpa del terrapieno.
    Ultimato questo lavoro poco prima che il nostro iniziale entusiasmo e il mio amore della novità si esaurissero, pensammo a procurarci gli esemplari con i quali avviare la selezione della numerosa, robusta e redditizia discendenza di chiocchiole. Per un giorno intero sguazzammo nel fango di un sottobosco dopo alcuni violenti acquazzoni che, come sapevamo, non avrebbero mancato di mettere in subbuglio e spingere all'avventura i tardi ma famelici molluschi. Nei mesi successivi l'incombenza di portar loro la sospirata lattuga cadde quasi sempre sulle mie sole spalle, ma in compenso, per una sorta di tacita intesa, Michele mi concesse l'uso della sua macchina: con la quale tuttavia qualche volta andai da tutt'altra parte e tutt'altro che solo; generalmente però svolsi con cura il mio compito di allevatore ed ebbi anche modo di fare interessanti osservazioni zoologiche: constatai per esempio che, al contrario di quanto credeva il mio amico, l'ermafroditismo non salvaguardava minimamente i nostri animaletti dalla fatica dell'accoppiamento, cui essi si dedicavano con discreta assiduità, benché con la lentezza caratteristica di tutte le loro occupazioni, e senza venire ad un vero e proprio amplesso (cosa che l'attorta architettura barocca delle loro inseparabili case non avrebbe mai consentito), ma limitandosi a gettare tra le estremità posteriori dei loro corpi un curioso strale bianco e puntando poi testa contro testa, dove evidentemente, oltre agli occhi antennati, dovevano avere gli ambigui organi grazie ai quali mescolano i corredi genetici, che noi esseri umani ― per buona sorte ― ci scambiamo in maniera un po' più emozionante.
     Dopo qualche settimana incominciai a trovare, disseminati qua e là tra le buche e i solchi del terreno, grappoli di uova chiare e tonde come perle; e potei seguire come da queste si svolgessero minuscole gelatine vive, con un minuscolo guscio vitreo e d'aspetto ancora tenero ma perfettamente formato nel suo unico giro elicoidale. La riproduzione avveniva dunque con la frequenza e regolarità che mi ero atteso, senonché la crescita era penosamente lunga e avrebbe innervosito anche allevatori meno insofferenti di me. La pazienza con cui i metodici animali rosicchiavano dal bordo verso il cuore le foglie d'insalata, la fatica con cui strisciavano sul suolo bruno e per loro accidentato rigandolo di bava, suscitò in me a momenti un'irritazione fino allora sconosciuta; ma quando venni a sapere da Michele, e quasi per caso, che ad assumere grandezza commestibile impiegano qualcosa come due anni, fui sull'orlo del tracollo. Mi calmò solo l'inverno, sollevandomi finalmente dalle mie peregrinazioni alla volta del vivaio, gli ospiti del quale avevano pensato bene di scavarsi delle piccole fosse prima che il terreno fosse indurito dal gelo e di seppellircisi sigillati nelle loro conchiglie.
     Se solo le mie angosce avessero potuto andare in letargo con altrettanta facilità!
     Invece avvenne tutto il contrario, perché poco dopo avere sontuosamente festeggiato il capodanno con me, il mio socio mi lasciò. Accadde all'improvviso in una delle prime, fredde mattinate di gennaio. Michele comparve nell'atrio, splendido nel suo vestito blu dai bottoni dorati e col consueto sorriso a labbra strette sotto il quale luccicava la spilla col brillante, infilzata in una sgargiante cravatta verde. Veniva dalla scala ma ― cosa singolare ― con un passo più svelto e nervoso del solito, forse per adeguarlo a quello dei due signori che camminavano gomito a gomito con lui, l'uno a destra e l'altro a sinistra. Davanti alla mia guardiola, prima di sparire oltre il portone, li costrinse a fermarsi: di fronte a me, al di là dei vetri, mi rivolse la faccia raggiante, punta dalle fossette argute delle guance; levando il mento accennò che voleva parlarmi, e io lasciai il mio tavolo per andare ad aprir la porta.
     «Ciao!» gridò con una specie di gioia soffocata: «devo andar via coi miei due inflessibili accompagnatori, qua! vedi che facce serie, manco fossi io a portare a loro dove invece loro portano a me!»
     E per salutarmi alzò le braccia unite, scoprendo dalle maniche della giacca i polsini bianchi, tremanti dell'oro dei gemelli e stretti in due grossolani anelli di ferro che dovetti riconoscere per manette.
     «Ciao, amico mio!» continuò. «Chiudo sette indimenticabili anni di gloria! Anche se mo mi dovessi pigliare l'ergastolo, quei sette anni non me li toglie più nessuno, te lo dico io! Senza rimpianto, Carlo, la vacanza è finita: me ne vado in vecchiaia anticipata, a vivere di ricordi. Stammi bene e bada a te, ora che resti solo!»
     E con le mani ancora in aria, serrate in quegli ordigni brutali che mostrava con tranquilla indifferenza, come se si trattasse di braccialetti, schioccò le labbra e tornò a sorridere: senza tristezza, quasi scusandosi d'essersi fatto acchiappare.


(Il talento, Feltrinelli, Milano 1997, pp.198-200 e 206-208; © Cesare De Marchi)

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