Sono nato quarto di tre figli in una famiglia decorosamente malestante. Fin dove risale la mia memoria, l'omissione della mia persona fu concorde e completa. Non che io voglia con questo fabbricare tempestive giustificazioni alla mia esistenza posteriore o accattivarmi simpatie con lo sciocco tranello del sentimento; m'immagino del resto che questa omissione non mi abbia impedito di poppare per qualche tempo al seno riluttante di mia madre né di godere dei benefici della mensa domestica, che pure erano a parer mio assai meno soddisfacenti della refezione d'asilo; non posso nemmeno negare di aver avuto nei più foschi pomeriggi invernali il conforto delle fiabe di mia sorella, anche se sospetto che quelle zuccherose e monotone narrazioni altro non fossero che le sue fantasie amoroso-matrimoniali di adolescente grassoccia; e concedo altresì che, quando nacqui io, i miei genitori erano ormai persuasi di aver chiuso da più di dieci anni i conti con la riproduzione, e che insomma io venni a guastare un equilibrio faticosamente raggiunto dopo che, nei primi tre anni d'infatuazione coniugale, erano stati messi al mondo uno dopo l'altro Pietro (che alla mia comparsa era ormai tredicenne), Marta e lo sventurato Sandro. Può darsi inoltre che da principio io non fossi, soprattutto la notte, così discreto come poi la mia omissione mi ha insegnato o costretto ad essere, e certo dev'essere stato duro per mia madre tornare, dopo tanti anni, a cambiare e lavare pannolini, a rimestare e scucchiaiare pappe, a ninnarsi un neonato tra le braccia svogliate. Ma tuttavia, visto che io ormai ― per quanto inaspettato e sgradito ― c'ero, avrebbe potuto fare buon viso a cattiva sorte e considerare che io, prima ancora che la causa del suo fastidio, ero il frutto della sventatezza sua e di mio padre. Se poi avesse avuto un briciolo di spirito, avrebbe potuto persino pensare che io venivo a salvarla dalla noia, che offrivo alla piattezza della sua vita l'occasione di rinverdire, una nuova ragion d'essere.
Per la verità, non posso nascondermi che ragioni d'essere mia madre ne aveva d'avanzo, dovendo far la spesa e cucinare, rassettare, vestire, rammendare, insomma mandare avanti la casa, e tutto col non eccelso stipendio di mio padre. Io la vedevo andare e venire, sbuffando, con le grosse braccia nude e un fazzoletto in testa da cui erompeva incontenibile la sua capigliatura in gran parte già grigia. Alle volte il mio stupore si allarmava, se lei appariva all'improvviso, di furia, con la scopa o qualche altro oggetto minaccioso tra le mani. Ma sempre dovevo accorgermi che nei mille frettolosi pensieri di mia madre io non entravo affatto. D'altra parte, dalla coscienza di questa omissione di me mi veniva la tranquilla sicurezza che permetteva ai miei pomeriggi, dopo il rientro dall'asilo o dal doposcuola, di esaurirsi lenti e indisturbati.
Nel fondo di qualche armadio scovavo vecchi giocattoli rotti, brandelli di animali di pezza, che rigiravo tra le mani senza poter trovare il modo di servirmene. Finivo per allungarmi sul pavimento, che guardato così da vicino mi si rivelava tutto scabro, scalfito, butterato, come una superficie lunare: toccavo col dito le giunture delle lastre, esploravo le ombre dei buchi della pietra, dove il mio polpastrello affondava. Nella bella stagione però la finestra spalancata inquadrava in un tratto d'azzurro le cime degli alberi sottostanti e ammetteva, coi nitidi suoni della strada, un'aria mite e verde che mi pareva di non aver mai respirata. M'incantavo, e la mia testa incominciava a pullulare di immagini, di vere e proprie storie che io seguivo, ripetevo, cambiavo instancabilmente. So bene che in condizioni simili si diventa poeti o disadattati: ma per buona sorte mi era del tutto estraneo il cupo egocentrismo che è proprio di entrambe queste alterazioni, e la mia vitalità naturale mi salvaguardava dai pericoli di una precoce solitudine.
Del resto, appena fui un po' più grandicello e cominciai a scoprire amici in tutti i coetanei del quartiere, non stavo certo ad aspettare le sollecitazioni di mia madre per prendere la porta, scendere di corsa i quattro piani di scale e uscir di casa. La strada era il luogo della mia libertà e (al contrario del tinello di casa) della mia più incontrastata spensieratezza. Via Tiraboschi, sita in quella vecchia, popolare parte di Milano derivante il suo nome dalla Porta Romana che fa sgraziata mostra di sé nel mezzo d'una grande piazza animata di tram, è un breve ma ampio e arioso viale alberato, dove giocavamo a acchiapparci, o addirittura al pallone, a dispetto dei bottegai che, temendo per le vetrine, uscivano a sgolarsi in proteste e minacce al nostro indirizzo, senza però mai passare ad altra via di fatto che gettarsi a rincorrere la palla per il marciapiede ― a gambe larghe, col grembiale svolazzante, perdendo la matita da dietro l'orecchio ― nel vano intento di raggiungerla e sequestrarcela. Oltre a questa, la sola pausa che conoscesse il nostro divertimento ci era imposta dai rari furgoni che, in quei primi anni del dopoguerra, strombazzavano aspettando pazientemente, per passare, che noi ci facessimo da parte.
(Il talento, Feltrinelli, Milano 1997, pp. 9-11; © Cesare De Marchi)