Incominciò proprio come una cosa senza importanza, mentre stava giocando sul tappetino ai piedi del letto. Suo padre apparve sulla soglia senza che lo annunciasse il consueto rintocco di tacchi per il corridoio: aveva ancora indosso il camice bianco con cui riceveva i pazienti nello studio, e che splendeva sotto la luce del lampadario. Gli parlò senza severità: «Bambino»; anzi, se la sua voce aveva un tono riconoscibile, era di conforto.
Lui volse la testa ma non la alzò fino alla luce e alla bocca che gli parlava: arrivò a fissare solamente il grosso, vitreo bottone che chiudeva in basso il camice sopra i pantaloni scuri.
«Bambino, devi stare un po' a letto.»
Un po': ma quanto era un po'? un giorno intero?
«Di più.»
Allora, forse, due... Ma suo padre taceva. Allora era una settimana?, e gli sembrava già un tempo ai limiti dell'immaginabile, crudelmente lungo.
«Di più, bambino.»
Ora sollevò tutto lo sguardo su, verso la lampada e la faccia di suo padre, ed ebbe la certezza che non si trattava di una punizione. Tuttavia si sentiva troppo turbato per drizzarsi in piedi. Del resto, suo padre si stava curvando verso di lui: la mano grande e ossuta, piuttosto fredda, si allargò sotto il suo mento in una carezza. Capì che quella carezza era una sorta di richiesta di non chiedere più.
La mamma entrò quasi di furia reggendo qualcosa in mano: lo afferrò sotto le ascelle, lo depose a sedere sul bordo del letto e incominciò rapidamente a spogliarlo. A lui questo non piaceva perché ormai sapeva fare da solo, e poi la mamma gli tirava e torceva le braccia, nella fretta, e quasi sempre, sfilandogli la camicia dalla testa, lo colpiva con una dolorosa unghiata sotto il naso. Quella volta tuttavia non accadde, e lui si ritrovò coi capelli fastidiosamente arruffati, affondato in un grande, pesante pigiama di lana (era questo l'oggetto portato dalla mamma), che sulle braccia e sulle gambe, dove veniva a contatto con la sua nuda pelle, pizzicava prepotentemente.
Anche suo padre si era appressato al letto, dove si accosciò davanti a lui e, afferrandogli i piedi scalzi, glieli fece poggiare sulle proprie ginocchia. Lui vide le due lustre, profonde stempiature della fronte china di suo padre, e al centro della testa, tra le fila un po' rade dei capelli, trasparire il bianco del cuoio capelluto. Sentiva, sotto le piante dei piedi, il tessuto dei suoi pantaloni e persino il minimo rilievo della piega; sul dorso dei piedi, sulle caviglie, invece, la pressione dei suoi polpastrelli, che gli davano l'impressione di penetrare morbidamente, uno per uno, senza dolore e senza resistenza.
«Sono tanto gonfi?» sentì chiedere la mamma.
Suo padre, anziché risponderle, diede a lui due leggere pacche sui piedi e disse: «A letto ora!»
Le sue estremità scomparvero nel caldo involucro di due grossi calzerotti celesti; lui stesso, da solo, s'infilò sotto le coperte.
Di tutto questo a lui apparve strana solo la quantità delle attenzioni dei suoi genitori, e inconsueto il trovarsi a letto prima che fosse finito il pomeriggio. Per di più la luce violenta e lievemente malinconica del lampadario venne spenta, e accanto a lui, sul comodino, scaturì un piccolo lume schermato da una stoffa, che faceva un chiaro delicato e diffuso.
Rimase solo. Gli piacque il cuscino sotto la nuca, soffice, e lo stupore del soffitto, segnato da bizzarre geometrie d'ombre, allungate e frastagliate tutt'intorno al circolo bianco della luce. Il pigiama ormai aveva smesso di prudergli, e lui sentiva tutto l'agio del non pensare.
Solo più tardi si svegliarono rumori e odori dal corridoio; la mamma gli portò la cena su un vassoio, che lui si aggiustò fra le ginocchia sollevate e il petto. Sopra c'era del pane, il suo piccolo cucchiaio d'argento e una ciotola di semolino, la sua minestra preferita, perché era così densa e aveva quel gusto ruvido di crusca che non finiva più di rigirargli per la bocca. Dopo il semolino, l'uovo al tegamino: sul piatto il bianco orlo bruciacchiato friggeva ancora, e il tuorlo, nel mezzo, era tondo e lucido come un occhio. Incominciò da questo, prima che si freddasse: delicatamente con la crosta d'un pezzetto di pane ne lacerò la pellicola facendo sgorgare un rivolo rossiccio, che raccolse con la mollica: era tiepido, pastoso, solleticava appena di sale. L'albume non era altrettanto saporito, ma deposto sui cantucci più abbrustoliti del pane si lasciava mangiare volentieri.
Con tanta gentilezza incominciava la malattia.
Fu dopo la mela grattugiata che la mamma portò la prima medicina: sembrava un'ostia, di quelle che il sacerdote, in chiesa, adagiava sulla lingua delle persone inginocchiate, salvo che questa era tutta bagnata e avvolta come un fagotto, e gli veniva porta su un cucchiaio da minestra.
«Non masticare» raccomandò la mamma.
Ma la cialda era grossa, non la si poteva ingoiare intera, e inevitabilmente spremendola sotto i denti ne venne fuori quel disgusto metallico, quel dolciastro intollerabile... I suoi sforzi non valsero a nulla, e con un gran sussulto vomitò, in due riprese, una poltiglia che gli raschiò dolorosamente la gola e poi colò lungo la rimboccatura del lenzuolo oltre il bordo del letto, allargando una pozza giallognola sul tappetino.
Tutto era stato così improvviso che non era neppure riuscito a sporgersi verso il pavimento: voleva scusarsi, ma invece di parole un nuovo rigurgito gli estorse un ultimo faticoso schizzo, tutto liquido, che gli lasciò un'arsione acida sul palato.
(Il bacio della maestra, Sellerio, Palermo 1992, p. 9-12; © Cesare De Marchi)