saggi - testo 6

Pochi giorni o settimane dopo il rogo di Berna Pfefferkorn partì, ben provvisto di lettere di presentazione e raccomandazione, per Monaco di Baviera; qui si recò a un convento dell'ordine terziario francescano, dove la vedova del duca Alberto di Baviera e sorella dell'imperatore Massimiliano, Kunigunde, si era ritirata dopo la morte del marito. Il focoso macchinatore d'intrighi non faticò a conquistare la fiducia della devotissima (e antisemita) badessa, tanto che partì da Monaco alla volta di Padova, armato secondo ogni verosimiglianza di lettere di lei per l'imperial fratello, che era impegnato nella guerra della lega di Cambrai contro la repubblica di San Marco e da due giorni aveva incominciato un assedio che sarebbe risultato infruttuoso. In mezzo ai preparativi alla confusione ai suoni della guerra il convertito riuscì a farsi dare retta e ripartì trionfante con un mandato (datato 19 agosto 1509), che lo autorizzava a requisire e distruggere gli «inutili libri talmudici» e le pubblicazioni ebraiche ingiuriose verso il cristianesimo.
     Con questa carta l'instancabile si mise sulla via del ritorno: non trascurò di ripassare per Monaco e tornare da Kunegunde a mostrarle il mandato ottenuto, dirigendosi quindi a Stoccarda, dove arrivò negli ultimi giorni d'agosto o nei primi di settembre. E qui avvenne qualcosa che non è bene immaginabile, un incontro, un contatto tra due persone non aventi altro in comune che la banale coincidenza di vivere nella stessa terra e nello stesso tempo. L'uno, quarantenne, nel pieno delle sue forze, e pieno di un risentimento crudo, profondo e (come credeva) prossimo a ottenere soddisfazione: un «getaufft Jud», un giudeo battezzato, come sprezzantemente lo chiamerà poi l'altro; e l'altro, Johannes Reuchlin, cinquantaquattrenne, già un po' invecchiato e stanco, desideroso ormai di occuparsi più solo dei suoi studi, che lo avevano reso famoso in tutta l'Europa colta. Nessun ritratto ci ha conservato i loro sguardi, e non sappiamo com'erano fatti fisicamente: ma li vediamo, l'uno davanti all'altro, soltanto un'ora; non si sarebbero incontrati mai più, ma quell'ora fu fatale al grande: invece della quiete e concentrazione agognate, fastidi polemiche preoccupazioni, perfino finanziarie alla fine, quando gli cascò addosso la condanna a pagare le esorbitanti spese processuali.
     Dunque per un'ora si videro corporalmente, dovettero sentire una avversione istintiva, e rimasero nei due diversi mondi cui appartenevano. Entrambi hanno raccontato l'incontro, sebbene con comprensibili discrepanze. Il convertito, che sapeva di aver di fronte il cristiano che più e meglio conosceva la lingua e i testi ebraici, gli chiese di accompagnarlo di città in città a raccogliere, esaminare e bruciare i libri degli ebrei: del che aveva mandato dall'imperatore, e tirò fuori il documento, che l'altro lesse attentamente e nel quale, disse poi, si trovavano alcuni vizi di forma: sicché, se anche avesse avuto tempo e agio di accompagnarlo, che non aveva, ciò gliel'avrebbe impedito. Pfefferkorn allora lo pregò di mettergli per iscritto questi difetti che gli era andato mostrando col dito su per le righe del mandato. Reuchlin strappò un pezzetto da una carta («ain zedelin ab ainem bappier gerissen») e scrisse. Fin qui Reuchlin. Pfefferkorn invece sostiene che quei vizi gli erano stati già indicati dall'arcivescovo di Magonza, il quale l'aveva perciò sollecitato a farsi conferire un secondo mandato dall'imperatore, mentre Reuchlin altro non avrebbe fatto che tenerlo a bada con blandimenti e promesse per meglio ingannare la sua fiducia.
     Poco importa. Anche dal racconto del convertito balza fuori la diffidenza dello studioso, la cui cortesia non fu né poteva essere più che gelo formale; di «un angelo che parlava» («putabam credulus ego me audire angelum loquentem») non si trattò certo, e la goffa iperbole basta a rivelare la malafede di chi così scrive. È piuttosto da chiedersi perché i domenicani mandarono Pfefferkorn da Reuchlin: il quale, è vero, aveva sempre prestato loro la sua gratuita consulenza giuridica, e alla loro lettera di presentazione (che dobbiamo qui supporre) non mancò di aprire la porta al losco individuo, dei cui libelli forse gli era giunta notizia; ma che seriamente i domenicani potessero credere che si sarebbe prestato ai loro disegni, aiutando a confiscare e bruciare testi che per lui erano oggetto di scrupoloso e rispettoso studio, è come minimo un malinteso. A meno che non fosse una trappola per farlo uscire allo scoperto: e certo, se non lo fu, tale in ogni caso ne fu il risultato ultimo.
     Johannes Reuchlin era uno degli uomini più famosi di Germania, e il suo nome non era secondo a quello di Erasmo. Di lui si parlava con reverenza come del «miraculum trilingue», poiché alla padronanza del latino e a quella già più rara del greco univa quella inconsueta dell'ebraico. Sebbene il suo rabbioso e troppo inferiore avversario abbia cercato di minimizzare questa sua competenza linguistica, Reuchlin sapeva esprimersi molto bene in ebraico, come dimostrano la sua lunga lettera a Bonet de Lates e la grande grammatica, la prima in Europa, De rudimentis hebraicis, che aveva pubblicata tre anni prima e di lì a poco avrebbe orgogliosamente difesa dalle insinuazioni del «giudeo battezzato». Alla cabbala ebraica aveva dedicato il dialogo De verbo mirifico (1494), composto sotto la suggestione dell'incontro fiorentino con Pico della Mirandola, e sull'argomento sarebbe tornato con più matura preparazione nel De arte Cabbalistica del 1517. Ma aveva anche scritto poesie d'occasione in greco (e greco era il nome di Capnione che in Italia gli aveva trovato Ermolao Barbaro, di cui Reuchlin a giusto titolo si fregiò, e che il lettore delle Epistolae obscurorum virorum ritroverà); e aveva composto due commedie latine, le prime autentiche commedie dell'umanesimo tedesco dopo il pur meritorio tentativo di Wimpfeling (Stylpho, 1480). La prima, Sergius, sferzava il culto e il traffico delle reliquie, ragion per cui stampa e rappresentazione scenica furono rinviate di qualche anno; mentre la seconda, Henno, è una gustosa commedia plautina di ambientazione contadina: rappresentata nel 1497, godette per anni di un successo enorme, che si riflette nelle circa quaranta edizioni a stampa che si ebbero fino al 1530, e nella splendida traduzione in Knittelverse tedeschi che Hans Sachs ne diede nel 1531.
     Per vivere Reuchlin aveva studiato il diritto e adesso rivestiva la carica di triumviro della Lega sveva, che mantenne fino al 1513. Possedeva quindi una duplice competenza, giuridica oltreché filologica, nella questione dei libri ebraici; ed è sicuro che, se i domenicani fossero riusciti ad averlo dalla loro parte, gli ebrei non avrebbero avuto difensori.
     Come che sia, la sinistra figura di Pfefferkorn si accomiatò e proseguì alla volta di Francoforte, dove incominciò, esibendo il mandato imperiale e coadiuvato da parroci e ufficiali del Consiglio cittadino, a sequestrare i libri degli ebrei, con la sola eccezione dell'Antico Testamento. Un ricorso della comunità ebraica al Consiglio cittadino fu respinto. Intanto, con la febbre dell'impazienza, il convertito era già passato a Magonza, a Bingen, Loch, Lahnstein, Deutz, intimando e confiscando.


(La satira sull'orlo del baratro, introduzione a Lettere d'uomini oscuri, Il Saggiatore, Milano 2014, pp. 22-26; © Cesare De Marchi)

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