saggi - testo 4

Schiller distingue due funzioni del linguaggio: «descrivere» e «rappresentare»; nella prima le caratteristiche distintive dell'oggetto sono trasformate in concetti e aggregate in una unità logico-sintattica; nella seconda invece sono presentate direttamente all'intuizione sensibile.
      Lo scrittore deve evidentemente rappresentare: il che significa vincere la tendenza propria della lingua all'universale. Il problema tecnico che la forma poetica deve risolvere è pertanto quello di arrivare alla «designazione dell'individuale»: l'oggetto, o la situazione, debbono «percorrere un lungo viaggio attraverso l'astratta regione dei concetti» ed uscirne sotto forma di immagini. Non è la quadratura del circolo, se si pensa che il modo tenuto dallo scrittore nella rappresentazione è capace di suscitare riso o commozione, affetto o spavento, e perfino di riscattare quel che si usa chiamare «volgare» o «basso» (e il breve ma notevole saggio che discute dell'uso artistico di questi elementi sviluppa il «bello della rappresentazione» in un abbozzo di teoria dei generi e dei tipi letterari). Certo nel Kallias mancano esempi esplicativi, ma alcuni, diretti o indiretti, possiamo trovarne in altri lavori.
      Nelle lezioni del 1792-93 Schiller citava, per chiarire come si possa «individualisieren» in poesia, alcune celebri figure retoriche (sineddoche, metonimia, prosopopea), e in genere la ricerca di immagini sensibili. Di contro, nella (troppo severa) recensione del 1791 rimproverava al bravo Bürger un «carattere troppo legato al senso, e spesso al senso comune» e l'«accozzamento d'immagini», e chiariva che l'individualità della rappresentazione non può andar confusa con la «individualità greggia e incolta, offuscata da tutte le sue magagne». Per un buon esito estetico occorre che l'individualità del poeta venga «nobilitata» o «idealizzata», poiché soltanto così essa diviene comunicabile a tutti. «Idealizzazione» d'altra parte, avverte Schiller nel suo capolavoro saggistico, non significa astrazione: e i personaggi di Klopstock, che «sono buone esemplificazioni di concetti, ma non individui né figure vive», riescono «troppo informi per l'immaginativa». Potremmo allora, per contrasto con queste critiche, cercare nell'ordine e nell'accostamento delle parole, nella loro musicalità, nella coerenza dell'immagine, la chiave della rappresentazione poetica.
      Con una concezione in apparenza opposta, nella troppo indulgente recensione all'insignificante Matthisson (1794) si pretende per l'opera d'arte «il carattere della necessità» e il «rigetto dell'accidentalità», e si chiede al poeta, se vuol commuovere il lettore, di «aver prima spento in sé e innalzato alla specie l'individuo». Con ogni probabilità queste non sono contraddizioni, ma semplici incertezze o meglio incongruenze terminologiche; sicché sembra possibile raccogliere in un'idea fondamentale tutte queste sparse considerazioni.
      Proverò con un esempio. Il mio godimento nel mangiare questo piatto prelibato è tutto privato e non può comunicarsi come tale (né lo potrebbero la mia paura, il mio amore o qualsiasi mio sentimento), perché ciò presupporrebbe che gli altri potessero venire fisicamente al mio posto e assumere tutte le caratteristiche, costanti e altresì temporanee, della mia macchina corporea. Ma se io, come artista, sciolgo da me le mie sensazioni trasferendole in un altro mezzo (parole; oppure figure e colori), allora, pur rivolgendomi al senso ― giacché la bellezza è sensibile, fenomenica ―, le farò diventare universalmente accessibili. Se invece la forma della mia espressione non vincesse il mezzo prescelto, accadrebbe che l'ingombro delle parole mal assortite, la fastidiosa concretezza del colore e il peso della figura non si farebbero immagine fantastica e resterebbero chiusi nella loro incomunicabile materialità.
      La necessità e universalità richieste all'arte non sono altro che «die allgemeine Mitteilbarkeit» di cui dicono le lezioni; l'individuale da respingere è piuttosto la sensazione privata e incomunicabile: mentre il vero artista raffina a forma («idealizza») un suo stato d'animo particolare, di modo che questo perda tutto quanto è in esso di accidentale, di legato ad un irripetibile stato psicologico o corporeo, per farne una rappresentazione individuata, unica, distinta da tutte le altre, ma accessibile a tutti perché distaccata dalla materia propria e trasferita, come pura forma, sul sostegno sensibile di un'altra.
      Così nell'imminenza della bufera romantica Schiller chiedeva all'artista rigore tecnico e impegno morale, dai quali poteva forse venire un argine alla marea dell'arbitrio, dell'esaltazione, dell'individualismo che ormai minacciavano la cultura tedesca; ma al tempo stesso affermava già, contro i canoni dei vecchi intellettualisti, l'unicità dell'opera d'arte e l'impossibilità di un modello.

(La bellezza di Schiller, introduzione a Kallias, o della bellezza e altri scritti di estetica, Mursia, Milano 1993, pp. 32-35; © Cesare De Marchi) 

© 2019 Cesare De Marchi

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