saggi - testo 3

Nel passare dalle nervose mani di Da Porto a quelle paffute e abbondevoli di Bandello, la storia non subisce nessun mutamento estrinseco, ma va incontro a una profonda trasformazione narrativa. Bandello non è un imitatore passivo, e anche là dove usa le stesse frasi e le stesse parole del suo predecessore, fa tutt'altra cosa da lui. Così, se Da Porto era stato teso ed essenziale, rapido, tragico, Bandello invece largheggia negli sviluppi, indugia nei particolari, allunga dialoghi, gonfia discorsi; i suoi personaggi si fanno più pieni, più facondi, e tutta la narrazione, benché rigorosa e coerente nell'impianto, prende un certo andamento tranquillo che le fa acquistare in piacevolezza e leggibilità quel che perde in dinamica drammatica. Il racconto di Bandello è insomma più romanzo che novella, se non per le dimensioni, certo per concezione di scrittura.
     Dopo un esordio descrittivo, tutto liquido d'«acque chiarissime» di fiume e «freschissime e limpidissime» di fontane, Bandello presenta dapprima il solo Romeo, amplificandone il precedente amore, da lui peraltro abbandonato in modo alquanto imprevedibile e meccanico dopo la lunga esortazione d'un amico. La scena della festa si affida un po' troppo a stereotipi del repertorio amoroso, e Romeo, che s'innamora di Giulietta al primo sguardo, assume con lei pose da vagheggino «guardandola con occhio gridante pietà […] sospirando», e parla un linguaggio tutto manierato d'iperboli cortigianesche; per converso Giulietta, che si rivolge a lui «con tremante voce» e «dolce ridendo», ha molto di oleografico. Il successivo colloquio del balcone è, rispetto al resto del racconto, insolitamente breve: Romeo vi appare ancora nell'attitudine vanesia della festa, giacché alla paura di Giulietta ― timorosa che lui possa essere scoperto e ucciso ― replica con una vanteria («m΄ingegnerei non morir solo»), e poco dopo chiede senza troppi complimenti di poter salire in camera di lei. Il Romeo di Da Porto aveva, è vero, fatto un'uguale richiesta, ma sotto una gran nevicata, pietosamente bagnato e intirizzito.
     Bandello riesce indubbiamente più efficace nei luoghi che si prestano al romanzesco: ecco allora che i fatti prendono colorito vivace e contorni opulenti, il quadro si arricchisce, palpita di dettagli, e tutta la pagina si fa comoda e suosiva. L'ambiguo frate Lorenzo, il matrimonio segreto, la scala di corda e la prima notte d'amore, il duello fatale di Romeo con tebaldo riempiono la fantasia di chi legge e la conducono dolcemente, senza pungolarla e affannarla coma fa Da Porto: e benché in tal modo la narrazione perda in rapidità e la scena singola finisca quasi per prevalere sulla storia, quest'ultima tuttavia non si arresta, non si svia mai, anzi procede con quel suo agio colloquiale che arrotonda, tornisce, rischiara l'oggetto e la situazione.
     Il commiato degli amanti, che Da Porto aveva ristretto a un solo scambio di battute nel confessionale di frate Lorenzo, ha invece in Bandello il teatrale scenario del giardino: il fraseggio morbido e manierato dissimula abilmente un'innegabile superficialità: «Stettero buona pezza tutti dui senza poter formar parola, bevendo […] l'un de l'altro le stillanti lagrime che in abbondanza grandissima distillavano». Analoga osservazione può farsi sul colloquio tra il frate e Giulietta nel quale viene predisposta la morte apparente e la sepoltura di lei. La scrittura si veste di un accattivante tono avventuroso: «Tu resterai senza polso e fredda come ghiaccio. Chiameransi i medici e i parenti […] su la sera ti faranno seppellire […] a tuo bell'agio riposerai […]. La notte poi seguente, Romeo ed io verremo a levarti fuori». Nemmeno nella successiva raffigurazione dello spavento di Giulietta al pensiero di trovarsi sola accanto al «guasto corpo di Tebaldo», tra serpi e vermi che affollano i sepolcri (la scena s'ingigantirà a barocca mostruosità in Shakespeare), nemmeno allora la lingua si spoglia della sua orecchiabile scioltezza. La funesta fine della vicenda è poi quasi un'apoteosi di teatralità, con il monologo di Romeo, sonante di interrogazionii retoriche e nobili perorazioni, sostenuto dal bel gesto di sguainar la spada «mettendo la punta a la parte del core»; anche il dialogo di lui morente con Giulietta è di un'eleganza struggente. Vien da pensare alle cabalette e ai duetti del melodramma italiano, tutt'altro che brutti nella loro compiaciuta ridondanza: solo non tragici.
     Con Matteo Bandello la vicenda di Giulietta e Romeo esce dai confini d'Italia: il francese Boaistuau (o, con grafia più semplice e moderna, Boisteau) traduce e ritocca la novella italiana nel 1559, e otto anni più tardi un inglese, William Painter, traduce fedelmente nella propria lingua la versione francese.


(Giulietta e Romeo: la storia della storia, Introduzione a Luigi Da Porto, La Giulietta nelle due edizioni cinquecentesche, Classici Giunti, Firenze 1994, pp. XVI-XVIII; © Cesare De Marchi) 

© 2019 Cesare De Marchi

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