Il romanzo, nella fittizia casualità della sua struttura, si rivela in realtà un mondo del tutto coerente, dove tutte le unità sono provviste d'un senso e, rinviando l'una all'altra, simulano il movimento. Ma con ciò è data, insieme alla raffinata abilità di costruzione, anche la debolezza del romanzo di Fontane: perché l'azione vi è destinata ad essere sempre o potenza o fatto compiuto, mai atto. L'evento è ogni volta piuttosto risultato di una costellazione di dati o premesse, che produzione effettiva di una volontà. Infatti in Irrungen Wirrungen Botho, che dovrebbe essere il perno della sola autentica azione del romanzo (la decisione di non violare le norme sociali), appare persona abulica e figura artisticamente indeterminata. Quando gli viene recapitata la lettera della madre, Botho dice: «Me l'aspettavo… So già tutto, prima di averla letta. Povera Lene»; rinuncia insomma a prendere una risoluzione autonoma; e «dopo aver letto, entrò in grande agitazione». Ma come si configura questa «grande agitazione» da cui è preso? Per quanto egli sia incapace di volere, qualcosa avverrà pure dentro di lui nel momento in cui acquista consapevolezza della propria fragilità, o nullità, spirituale. La narrazione drammatica diretta, a questo punto, non è più eludibile. Ma ciononostante Fontane si studia ugualmente di surrogarla, sia con la narrazione allusiva (la cavalcata alla tomba di Hinckeldey), sia col monologo, che egli non riesce però a innalzare a esauriente rappresentazione artistica, poiché né egli può dissimularvi, come nello scambio dialogico, la staticità, né può conferirgli il colorito proprio della parlata viva: e codesto monologare finisce in tal modo per appiattirsi e ridursi a mera enunciazione dei fatti («Non è nella mia indole sfidare il mondo e dichiarare pubblicamente guerra ad esso e ai suoi pregiudizi: sono contrarissimo a donchisciotterie del genere»). E tanto poco lo stesso autore è soddisfatto di questa sua soluzione, che molto più tardi, a matrimonio ormai celebrato, fa tornare Botho sul luogo medesimo che era stato teatro di quel monologo, lo fa incontrare col giovane Rexin ― estimatore, proprio come lui, della semplicità e della naturalezza, sprezzatore delle «artificiose» differenze di classe e innamorato di una ragazza del popolo ― e gli fa tenere uno sconsolato sermone che dovrebbe gettare qualche retrospettiva luce sulla sua passata decisione ― o piuttosto indecisione (cap. 23).
(Introduzione a Theodor Fontane, Amori, errori, Mondadori, Milano 1982, pp. XXXI-XXXII; © Cesare De Marchi)